La crisi del calcio e la terapia Iervolino

Questa contrapposizione semantica genera un equilibrio del sistema che troppe volte ha rischiato di tradursi in una palude. È singolare che a gettare un sasso nelle acque stagnanti sia stato, nella riunione tra Lega calcio e Figc, il presidente di una di quelle provinciali erroneamente derubricate a satelliti dei grandi club. Danilo Iervolino ha avanzato, nel dibattito che si è aperto sulla riforma dei campionati, una proposta tanto autonoma quanto forte, perché espressione di una posizione finanziaria solida e allo stesso tempo rappresentativa di molte società fin qui senza voce e senza peso.  

Sono cinque i punti di quello che a ragione può essere definito un vero e proprio lodo strategico. Il primo è la sostenibilità finanziaria dei club, che passa per un deciso intervento regolatore. La dinamica competitiva del mercato non è in grado di autolimitarsi. Nella foga agonistica nessuna società ha fin qui dimostrato di privilegiare il bilancio alla classifica. S’impone un provvedimento che vieti o limiti il disavanzo gestionale. Ma per rendere l’obiettivo raggiungibile serve una flessibilità contrattuale, che metta i club al riparo dai tracolli sportivi. La rigidità degli ingaggi rispetto alla qualità delle performance è troppe volte una camicia di forza per i club. Un giocatore legato da un costoso contratto pluriennale, che abbia un calo di prestazioni o non risponda più agli schemi di gioco della guida tecnica, diventa spesso una zavorra. Nel rapporto tra i club e i calciatori professionisti il cosiddetto rischio prestazionale non può poggiare su una sola controparte, ma va condiviso attraverso forme di corresponsabilità contrattuale. 

Il secondo punto riguarda gli stadi, che sono i luoghi di maggiore assembramento delle città e centri nevralgici della loro economia. Rispetto ai quali il disimpegno della politica in Italia è inaccettabile. È difficile dire se pesino di più i vincoli ambientali e burocratici o i veti ideologici. Fatto sta che chiunque abbia pensato di investire su un nuovo impianto ha dovuto a posteriori battere in ritirata e pentirsi di averci provato. Nessun rilancio del calcio è pensabile fuori da una robusta iniezione di infrastrutture.  

Il terzo punto è la fiscalità. Se pure è stato giusto porre fine al cosiddetto bonus stranieri, i cui effetti asimmetrici hanno privilegiato alcuni club più di altri, penalizzando l’anima manifatturiera del calcio a vantaggio di quella speculativa, gli incentivi non vanno azzerati ma spostati. Per esempio con un credito di imposta sugli investimenti nei vivai di tutto il professionismo sportivo. 

Il quarto punto si chiama betting. Bisogna prendere atto che si è consolidata un’economia florida ma parassitaria, che guadagna grazie al brand e all’immagine dei club. Negare al calcio di partecipare al reddito che genera è un assurdo economico e civile. 

Il quinto punto concerne la riforma dei campionati. Contrari a una riduzione a diciotto squadre della serie A, i piccoli club chiedono di ridurre retrocessioni e promozioni per stabilizzare gli investimenti, anche a costo di indennizzare le leghe minori con una maggiore mutualità. Ma più di tutto rivendicano autonomia della Lega dalla Figc, in ragione di una sussidiarietà che troppe volte negli ultimi decenni è diventata subalternità. Non a caso, fa notare Iervolino, quella italiana è l’unica lega i cui diritti televisivi vengono distribuiti da una legge dello Stato. 

Si può discutere sulla validità di queste proposte, ma non v’è dubbio che per la prima volta si coglie in esse la progettualità di un disegno, su cui aprire un confronto con i club e con la politica. Con quest’ultima è inevitabile una trattativa serrata. L’apertura del presidente della Figc, Gabriele Gravina, a una fase costituente offre l’occasione di far convergere la maggioranza dei club su una posizione unitaria. Di cui il lodo Iervolino può rappresentare un prezioso canovaccio. 


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